AL BUIO I COLORI NON ESISTONO

Alberto e Adriana. Una coppia in cui molti di noi possono riconoscersi. Dove le rispettive diversità d’indole e di mondi, anziché separare, creano il collante per un’intesa feconda e solida nel tempo. Fin dal principio entriamo nelle loro vite, ne condividiamo sogni e inquietudini, riti della quotidianità e fughe nell’ideale. Ma a un certo punto accade che improvvisamente li perdiamo di vista: nuove esistenze, nuovi mondi – antropologici come emozionali – irrompono in scena. Non meno carichi di urgenze vitali. Non meno capaci di incidere nelle nostre attenzioni, di conquistare i nostri cuori. Sì, ma dove sono finiti Adriana e Alberto? Torneranno, possiamo esserne certi. Poiché nulla in questa storia è gratuito, vanamente digressivo, ma tutto, anche il particolare più insignificante, ha una sua funzione in vista di quel finale in cui ogni destino, ogni moto dell’anima o scelta esistenziale trovano il loro magico punto di confluenza: che è pure la loro giustificazione narrativa, la loro catarsi. Ironico e intenso, fotografa due aspetti della società attuale: da un lato la buona borghesia di trenta- quarantenni, affermati professionalmente ma insoddisfatti della vita in generale, sterile e vuota di valori; dall’altro, storie ai margini, ambientate nelle squallide periferie cittadine, animate da personaggi costretti a “sopravvivere”, circondati da brutture umane. Imprevedibilmente, questi destini si intrecciano, con un finale non scontato, pungente, positivo.


UN ANTICIPO

«Perché sei triste?»
«Sei in buone condizioni di salute, abiti una bella casa, hai ottimi amici.»
«Uno stipendio che ti permette di assecondare i tuoi vizi.»
«Non ti manca nulla!»
«Mi fai innervosire quando fai così!»

Ogni volta che Alberto, di proposito, lasciava trasparire la greve effervescenza del disagio e dell’inadeguatezza che travolgeva di continuo il suo animo, la reazione di Adriana era la medesima. Le stesse frasi, di frequente poco meno che urlate, di rado con dolcezza sussurrate. All’inizio del loro rapporto lui aveva interpretato l’eco distorto alla sua richiesta d’aiuto come chiaro segno della superficialità di lei, mentre con il tempo, si era convinto che la sostanziale comune paura fosse affrontata da loro due con armi e strategie differenti. Malgrado tale convinzione, il non poter spendere con lei parole, il non potersi insieme dannare sull’ineluttabilità del destino, il sentirsi violentato dalla sua stessa incapacità di cullarsi nel sogno di una verità migliore, inspessiva in lui – giorno dopo giorno, divergenza dopo divergenza - il callo che ostacola una spontanea, propositiva e costruttiva comunicazione verbale con gli altri esseri umani. Quelli che da tempo – al variare dello scenario –considerava i normali.Comunicazione costruttiva: analizzare situazioni, valorizzare pregi, scovare difetti, ipotizzare nuove soluzioni; per costruire un nuovo mondo in cui vivere, un nuovo modo di vivere. Sopravvivere. Costruire, un verbo sfruttato dallo stesso Alberto nel corso degli anni, ora quaranta, che da sempre considerava ripugnante, quasi perfido e venefico, ma purtroppo richiesto, anzi preteso con forza e determinazione dal mondo in tutte le conversazioni. Solo in quelle.Persino Adele, la mamma di Alberto e l’essere più avulso dalla realtà che conoscesse, in occasione del suo trentesimo compleanno aveva usato quel maledetto termine: costruire. «Alberto, tanti auguri, è ora che tu inizi a consolidare quanto hai costruito sino a oggi, tanti auguri caro e buon compleanno».
L’affondo era terminato con i baci di rito.

Alberto, sprofondato nella poltrona del suo studio, ampio kimono di seta blu stretto in vita - sotto nulla - guarda la portafinestra che dà sul terrazzo del piano inferiore di casa sua. Porta serrata, scuri blindati chiusi e bloccati da una spranga antisfondamento; fioca luce che si insinua dal resto della casa. Le sette del mattino. Lunedì. Un calcolato su e giù dalla zona giorno alla zona notte, che la tradizione borghese vuole al piano superiore. È Adriana che si sta occupando delle faccende mattutine: toilette, scelta dell’abito, veloce colazione, trucco; il tutto calibrato, pensato, previsto, programmato. Anche per questo considera il malumore di Alberto irritante, fuori luogo, fuori tempo. Prevede già che un non ben precisato malessere gli impedirà di recarsi al lavoro e per questo dalla cucina con acidità lo schernisce: «Non ti senti bene, vero? Hai la febbre? Uh che febbre!» Quando però, come oggi, la soglia della più intima introspezione non è a pieno raggiunta, bastano queste poche battute a stimolare l’orgoglio di Alberto, a farlo vestire, a indossare sorrisi e cordiali parole pronte per la prostituzione quotidiana cui è convinto di essere costretto. «Non mi prendere in giro! Non sono malato, mi preparo subito. Ti serve la station wagon?»«No grazie. Starò tutto il giorno nel pensatoio, devo elaborare un’idea che ho avuto la scorsa settimana e sento che oggi riuscirò a darle forma.» Risponde Adriana.
Adriana e Anna, da tre anni socie ne “Il Trombettiere”, si occupano di inventare e realizzare giochi per bambini. La loro linea si discosta di gran lunga dalla moda di mercato dell’ultimo decennio: i cosiddetti giochi educativi. Sono sempre state dell’opinione che l’universo bambino sia composto di galassie molto distinte tra loro, ognuna con caratteri e ruoli propri e inconfondibili. Ricordano sovente, a dispetto dei trenta anni già da tempo traguardati, la loro infanzia. Un insieme di giochi Giochi, di genitori Educativi, di zie Irresponsabili, di cugini Complici, di nonni Vizianti, di cartoni animati con poca morale e tanti disegni colorati, giardinetti pubblici terrosi non ammortizzati, e così via. Il loro futuro lavorativo fu concepito un pomeriggio in cui visitarono un negozio del centro in cerca di un regalo per Matteo, figlio di amici e, inevitabile conseguenza, loro nipote putativo. Matteo allora stava per compiere due anni. Entrarono nel negozio e, consigliate dalla commessa, acquistarono un libro puzzle: un libricino con pagine rigide, poche, con altrettanto rigide immagini colorate, poco, e un puzzle composto di sei cubi rappresentanti ognuno sei parti di sei tristi raffigurazioni di tristi animali tristi. Uscite dal negozio, più simile a un collegio femminile austriaco inizi ‘900 che non a un paradiso di fantasie infantili, ma accreditato e molto noto alla “Città Bene”, i loro sguardi si cercarono. Dapprima non proferirono parola; continuarono .........


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UN ALTRO ASSAGGIO

«Lui sta benissimo, sarà una roccia. Stia tranquilla Samantha.»
«Quanto tempo ancora dottore?»
«Potrebbe essere già domani, al più tardi doman l’altro. Lei deve tornare qui domattina e, per sicurezza anche domani sera. Prenda un taxi. Me lo prometta Samantha.»
«Alle sette e mezza può andare?»
«Sta bene.»
Samantha esce dallo studio medico, si copre bene e affronta il lungo viaggio che, attraverso il pianerottolo la porterà all’ascensore. La sua mente è concentrata, le energie controllate: con estrema lentezza alza la coscia e piega un poco il ginocchio poi, veicolando tutte le forze sull’articolazione dell’anca, sospinge l’intera gamba di qualche centimetro in avanti e riappoggia il piede sul pavimento; nel frattempo ha mantenuto con fermezza l’altra gamba ancorata al suolo. Un passo è fatto. un decimetro guadagnato. Ora la medesima operazione con l’altra gamba. Un occhio estraneo e distratto nota soltanto un giustificabile indugio nei movimenti. Quattro passi.L’ascensore.Il pianterreno e Graziella ad attenderla. Un aiuto per salire in macchina e via, verso casa. È Graziella la prima a comunicare. «Cazzo ha detto il dottore?»
«Che sta bene.»
«E per te?»
«Niente.»
«Niente?»
«Niente significa niente!»
«Cazzo Samantha, ma tu non hai chiesto un cazzo di niente?»
«No!»
«Se studiavo io da dottore, non fare quel cazzo di corso per stilista! Stilista poi, e guarda cosa faccio. Si faccio la stilista perché modello i cazzi con le mani! Questi se la tirano perché cianno quel pezzo di carta ma poi non tengono nemmeno l’ombra di un cuore.»
«Basta Graziella, sono stanca. Che doveva dirmi? È sempre lo stesso.»
«Basta un cazzo! Sono più puttani di me! Per duecento euro non ti dicono nemmeno come cazzo stai? Ti dicono quei paroloni che non ci sono nemmeno sul vocabolario! Perché? Perché vogliono che compri anche il vocabolario loro, così fanno marchetta anche su quello. Bastardi! Io almeno quando ho un cliente lo vedo se cià qualcosa che gli rode. Lo faccio pure sfogare, se vuole, e gli faccio pagare sempre uguale.»
«Dai, parcheggia che siamo arrivate.»
«Cazzo, mica me ne ero accorta!»
«Mi dai una mano a lavarmi?»
«Cazzo, e me lo chiedi? Se potrei prendermi mutua starei con te stanotte ma l’altro mi gonfia se non lavoro. Senti, sto con te fino alle dieci così ti do una mano a pulire la cucina.»
«Graziella, se potessi … non se potrei. L’ho imparato io, ce la puoi fare anche tu. Leggi un po' la mattina quando torni a casa.»
«Quando torno ciò già da leggere le bollette, la lista della spesa e l’oroscopo. Leggerò di più quando mi ritirerò.»
La casa di Samantha: una camera, una cucina e un bagnetto in un palazzo popolare della cintura della città. Un agglomerato di “casermoni” costruiti negli anni settanta come dormitori per gli immigrati. Oggi la loro funzione è la stessa, l’unica differenza è che gli immigrati hanno cambiato colore. Samantha è una delle poche figlie di “australi” che non ha abbandonato quella struttura per un’altra altrettanto brutta, in una zona di pari tristezza e scomodità; in fin dei conti soltanto più nuova. I genitori riuscirono, con i sudati risparmi di una vita, a riscattare l’appartamento e alla loro morte, quindici anni fa, lei rimase sola. Da allora aveva rimodernato l’arredo con i pochi soldi rimasti dopo aver pagato i ladri matricolati dell’impresa funebre. Madre e padre: vittime di un incidente in macchina sulla tangenziale. Avrebbero dovuto telefonarle una volta arrivati dalla zia, dall’altra parte della città, e invece aveva citofonato la polizia. Samantha intese già tutto non appena scorse bordeaux e carta da zucchero fuori dall’uscio. Non fu necessaria una spiegazione o un’espressione. Il tempo per alzare lo sguardo da terra agli occhi dello sfortunato ambasciatore bastò
. «Signorina …»
«Un attimo, mi vesto e vengo.»
Era sua abitudine guardare in basso.
Era sua abitudine non domandare.
Obbedire
Indossò il suo cappotto nero, quello invernale della domenica. Li seguì in silenzio continuando a misurare il leggero e morbido movimento del blu e l’estrema rigidità del bordeaux. Una volta in ospedale riconobbe ufficialmente i corpi.Quando i poliziotti se ne andarono le si avvicinò un trentenne ..............


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L'ULTIMO ASSAGGIO

La cuccia di Tancredi, all’incrocio tra la 5a avenue e la 23ma, è all’ottavo piano di un palazzo dei primi novecento. Due finestre soltanto per un bilocale che si affaccia su quella che una volta era la via commerciale di New York. Tutto attorno grattacieli lucidi e splendenti. All’interno un arredamento minimale, da perfetto studente, ma provvisto di quanto di più tecnologicamente avanzato: un olotelefono, un casco a realtà virtuale per agevolare gli studi, un formfax e anche un semplice computer, strumento oramai sorpassato. In più altri aggeggi utili alla vita da single di uno studente non single dell’attuale presente; e un peluche.
Sono le sei del pomeriggio.
Tancredi e David rientrano da una faticosa giornata di studi al campus, abbandonano i caschi della moto all’ingresso, i loro minuscoli zainetti contenti gli e-book di storia della filosofia e si sdraiano entrambi sul divano, stanchi ma soddisfatti e felici. Si vogliono riposare un po’ prima della serata che li aspetta nella discoteca più chic di Manhattan. Dopo mezz’ora di relax Tancredi si alza divincolandosi dal tenero abbraccio di David.
«I take a shower now, David.»
David sorride complice. Si accende una sigaretta.
«Five minutes and I’ll be there, with you» risponde mentre Tancredi ha già raggiunto il bagno.
Squilla l’olotelefono.
«Tancredi, an incoming call for you!» urla David dal divano.
Tancredi esce nudo dal bagno, si fascia una asciugamano alla vita e, guardando il display dell’olotelefono, riconosce il numero del chiamante.
David fa per spostarsi nell’altra stanza ma Tancredi, affettuoso, gli dice:
«Stay here, closed to me, they know», poi preme il tasto di accettazione chiamata e per abitudine risponde:
«Hello, pronto!»
«Ciao, sei tornato finalmente, ero preoccupata, è da questa mattina che provo a chiamarti!»
«Ciao mamma, ho, abbiamo avuto una lezione molto faticosa in oloconferenza con un docente di Pechino, e sai che non si possono tenere i cellulari accesi in aula. Ti preoccupi sempre troppo, a ogni modo sono qui, vivo e vegeto, non ho avuto incidenti in moto, ho mangiato e sono anche ingrassato!»
«Mi dici sempre così Tancredi, e poi sei sempre più sciupato.»
«Attiva l’ologramma così mi vedi.»
Mamma e figlio attivano la trasmissione ologrammica e così Tancredi è nel salone della mamma e lei è proiettata tra lui e mezzo David.
«Tancredi, ma di chi è quel braccio alla tua destra, digli di spostarsi nel campo della telecamera, così lo vedo.»«È David, ne ho parlato a papà, non ti ha detto niente?»
«Certo che me l’ha detto, ma come lui sta vedendo me in vestaglia ora, io voglio vedere lui.»
Tancredi fa cenno a David di avvicinarsi ed è così che dall’altra parte del mondo, in un salotto borghese di una famosa città sempre in auge, prende forma un ragazzone nero dal fisico scolpito, gli occhi azzurri e i capelli ricciolissimi neri che sorride e saluta con un gesto della mano.
«Sembra simpatico, ha un bel sorriso!»
«È molto di più!»
«Papà non mi aveva detto fosse … così abbronzato.»
«Perché mi sarò scordato di dirglielo, come non gli ho detto che adora i tortellini e che gli piace leggere. È un problema?»
«Quanto sei sciocco, lo sai che non è così, perché sei sempre sulla difensiva?»
«Scherzavo mamma! Scherzavo! Ho voglia di stringervi un po’ e di farmi grattare le schiena da papà davanti al televisore.»
«Ti abbiamo chiamato proprio per questo Tancredi, allora ce la fai a tagliare le lezioni e venire qui per il tuo compleanno, domani?»
«L’ho già detto a papà, non capisco perché volete che venga io, sarebbe molto più comodo veniste voi qui, così io vado a lezione, vi vengo a prendere e festeggiamo in un ristorantino niente male che hanno appena inaugurato ad Harleem.»
«Tancredi, è importante venga tu qui, e sarebbe meglio ti fermassi un paio di giorni.»
«Mamma, mi sembri un agente segreto.» ..............