HO RISCRITTO PER TE IL DESTINO

"Ho riscritto per te il destino" è l'evoluzione esasperata e malata del senso di giustizia del protagonista che devia a causa del tradimento della moglie. Si tratta di un giallo a sfondo psicologico nel quale il lettore è alternativamente proiettato in due ambienti, realtà e cronologie differenti. Un esercizio per l'appassionato della ricerca di una soluzione, quanto una analisi del sempre più comune senso di rivalsa di chi, troppo spesso, è costretto a subire. Nel testo sono nascosti indizi, sia lessicali sia tipografici, che servono a dimostrare - con rigidità matematica - trama, intreccio e infine il colpevole; quest'ultimo, in modo quasi irriverente, riabilitato e giustificato nelle proprie azioni. La struttura del romanzo è tale da disorientare il lettore poiché, alla deriva psicologica del protagonista, è affiancata la storia di un uomo in carcere - apparentemente condannato ingiustamente. A tre quarti del testo, al culmine della tensione, il lettore pensa di aver fatto chiarezza nell'intreccio e, proprio quando è certo di aver capito ruoli e responsabilità, scopre la verità: diversa. La veste tipografica, il lessico di talune parti e la scansione cronologica degli eventi, rendono il testo originale ricalcando nella struttura generale - e solo in quella - il romanzo d'esordio. Alcuni dialoghi sono, nella forma, contemporanei e mi sono avvalso delle nuove leggi di contrazione della comunicazione oggi sempre più presenti anche nei non giovanissimi. E' un romanzo breve, succinto nelle descrizioni: audace e - come lo ha definito Pierluigi Berbotto per la prima valutazione critica - "un romanzo in continuo movimento".

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UN ANTICIPO


Infinito

Era come quella volta all’ufficio postale.
Due uomini.
Tra loro un buco; sopra il buco un vetro, sotto il buco un muro.
Era come ogni volta che incontro qualcuno.
Ma non era l’ufficio postale.
Martedì, 1 luglio 2008.
«Piacere, mi chiamo Vittorio. Sono un volontario che presta servizio qui. Ha voglia di fare due chiacchiere con me?»
«Sono obbligato?»
«Certo che no!»
«E allora perché dovrei?»
«Si tratta di volere, non di dovere. Io sono qui per passare un po’ del mio tempo con lei, per capire se posso fare qualcosa, aiutarla in qualche modo.»
«Cos’è, uno psicoqualcosa? È dei servizi sociali o che altro? Cosa vuole sapere da me che già non abbia detto in tribunale. Ma se ne vada, e dica ai suoi superiori che non ho proprio un cazzo da dire.»
«D’accordo, parlerò con qualcun altro. Avevo scelto lei perché mi sembrava che – dato il suo caso – avrebbe avuto più voglia di parlare con un estraneo…»
«Ma se ne vada ho detto! Anzi mi levo io dai coglioni, così può guadagnarsi lo stipendio senza far …»
«Volontario significa che non percepisco alcuna remunerazione per il mio tempo passato qui.»
«E allora la coscienza se la lavi con qualcun altro.»
«Farò così, anche se chi sta da quella parte non sono io, e quindi non ho proprio nulla sulla coscienza…»
«Ehi stronzo, che tu ci creda o no, io ancor meno di te; sono qui per errore, io sono qui perché qualcuno ha voluto fare il furbo con me e perché questa cazzo di giustizia proprio non funziona. Io non ho fatto un bel niente se non …»
«Infatti. Anche io credo che lei non abbia fatto quello che le è stato ascritto nelle imputazioni. Perlomeno non tutto.»
«Quindi sei anche un medium, o sei solo curioso? Non fai certo il servizio civile, data la tua età! Cosa sei? Un cattocomunista, con quella barba e quei capelli lunghi? Cosa vuoi saperne del mio processo?»
«Solo quello che sta scritto nelle cinquecentonovantaquattro pagine degli atti.»
«Sei un avvocato?»
«No.»
«Un giudice?»
«No.»
«E cos’altro sei allora?»
«Sono un libero professionista, solo, che ha perso i genitori, il fratello e l’amico più caro otto mesi fa, e che sta provando a ricostruire la propria vita cercando di dare una mano a chi ne ha bisogno, e a se stesso. Ecco cosa sono. In ogni caso, non mi pare si siano creati i presupposti per continuare. Mi spiace. In bocca al lupo.»
«No, aspetti …aspetti un attimo. Lei ha letto gli atti del mio processo?»
«Sì.»
«E perché?»
«Perché mi hanno colpito le imputazioni, i fatti, l’evolversi del processo e …»
«Ma perché proprio il mio?»
«Sto studiando legge, la seconda laurea, e di conseguenza ho accesso agli atti, che come lei sa sono consultabili a processo terminato. In genere li scorro velocemente, ma poi, forse il caso, forse perché anche il mio amico si chiamava come lei, mi sono soffermato più a lungo sul suo… la condanna è adeguata ai crimini. Le prove sono chiare e la situazione pulita. Persino troppo pulita e perfetta. L’ho letto e riletto, ma ho continuato ad avere la sensazione che qualcosa mi fosse sfuggito. Ho deciso così di impegnarmi con lei anziché con un altro. Ecco la verità. Forse con la presunzione di capire qualcosa in più di chi l’ha seguito fino ad ora, ma di sicuro con la convinzione di saper fare bene il volontario.»
«Mi dispiace per la sua famiglia. Mi spiace anche di averla maltrattata. …Scusi … Sono qui da una settimana e mi sembra di impazzire. Non mi sembra ancora possibile che … non capisco più nulla. Cinque anni. Mi hanno dato cinque anni in questo carcere-manicomio e io non ho fatto nulla! Mi hanno inchiodato, ma non so, non capisco. È un incubo.»
«È difficile comprendere, ma ci sto provando. Possiamo darci del tu?»
«Sì, sì …e lei come ha detto che si chiama?»
«Vittorio.»
«…»

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Trapassato remoto

Edoardo era stato bambino.
Non lo ricordava più.
Non gli sembrava possibile l’aver indagato il mondo, curioso, con il mento appoggiato alla spalla di una mamma. Gli occhi grandi e grigio-azzurri disserrati sul nuovo, non potevano essere stati i suoi. Gli era quasi impossibile immaginare che qualcuno gli avesse fatto delle smorfie per farlo ridere.
Il più lontano ricordo era un buco in un muro. Il muro che delimitava il cortile del palazzo nel quale abitava; il cortile nel quale giocava con la sua vicina di casa.
Il buco: lo spazio che era forse stato l’alloggiamento di un gancio, un grosso gancio, e nel quale lui infilava il suo esile indice contando fino a dieci, con gli occhi chiusi, così da dare la possibilità alla sua amichetta di scegliere gli ormai sperimentati recessi.
Edoardo non barava mai.
Non teneva gli occhi socchiusi per capire la direzione nella quale cercarla.
Lui stava lì con gli occhi suggellati, con il dito nel buco, e contava.
Ecco il primo ricordo.
Non era mai stato in grado di associare a quel buco la sua età: per certo sapeva contare. Altrettanto certo è che potesse giocare senza alcuna vigilanza, in un cortile affacciato alla strada. Senza protezioni.
Dieci anni, forse nove.
E prima?
Durante i suoi trentasei anni di vita aveva provato molte volte a recuperare tracce della sua infanzia, della pubertà, ma il risultato era ogni volta lo stesso: poche scene, senza contesto, e poi il buco.
Per un po’ aveva smesso di tentare: negli anni più intimi e carichi della sua storia con Sibilla, la moglie. In quella fase dell’amore non c’era tempo, energia e pensiero che non fossero per lei, per loro, per il proprio futuro.
Poi.
Erano cresciuti.
Erano cambiati.
Con loro anche l’amore.
Era quindi stato necessario trovare un diversivo, un esercizio per la sua mente esausta e stremata dallo sforzo di epurare il loro rapporto inquinato da un altro lui: trovare ricordi di un passato protetto, accudito, coccolato e al riparo, desiderato e parte di una famiglia.
Non c’era riuscito.
Era stato figlio unico, figlio di figli unici. Nessun fratello o sorella con cui litigare o con cui confidarsi. In casa solo padre e madre, non mamma e non papà.
La vicina di casa: femmina.
Il carattere: riservato.
Compagni di classe: tanti.
Complici: nessuno.
La mancanza più sentita: i consigli.
L’equilibrio.
A ruota: la sicurezza.
Gli ingredienti giusti per diventare un amante del “fai da te”.
A quindici anni – e questo lo ricord ................

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UN ALTRO ANTICIPO

Imperfetto

È quello che bisogna fare.
Pendolari alla stazione.
Il treno in arrivo.
Treno locale: vecchie carrozze.
In orario.
Salire.
Aspettare.
Compartimento pieno: no.
Compartimento mezzo vuoto:no.
Tutto libero: sì.
Lei, lontana, a inizio treno.
Sì è lei. Rimarrà là.
Cinque fermate al capolinea.
Quattro.
Tre.
Agire.
Maniglia rossa.
Tirare. Forza. Salta il sigillo.
Campanella.
Rumore di freni.
Fermi.
Svenire, è il momento.
Soccorsi.
Il tempo passa, il treno è fermo, le coincidenze perse.
Due minuti, tre, acqua, quattro, dieci.
Ormai in ritardo, troppo in ritardo.
Lei non arriverà più in tempo.
Venti minuti.
Riprendersi.
Farsi accompagnare giù. È l’ora di barcollare.
Ventitré minuti.
Il treno riparte.
Lei, ritarderà: troppo.
Bene.
Fatto.
È quello che bisogna fare.

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L'ULTIMO ANTICIPO

Trapassato remoto

Edoardo non giocava a calcio.
All’epoca del buco nel muro del cortile Edoardo aveva iniziato a frequentare l’oratorio. La Chiesa si trovava a pochi metri da casa sua; comoda. Lì era stato battezzato. I pomeriggi di quella estate, finiti i compiti, li trascorreva alternativamente con la sua vicina di casa o con gli altri bambini “cattolici”.
Era una compagnia numerosa, ma affiatata da tempo, poco propensa alla comunione con un nuovo venuto. Non ci badava. Giocava e basta.
Il suo gioco preferito erano le bilie. Era affascinato da quelle sfere trasparenti, contenenti quelli che per lui erano fiori di tutti i colori.
Il gioco consisteva nel posizionare una sorta di boccino a media distanza dai gareggianti. Il vincitore era colui che, tirando la propria bilia, si avvicinava di più al boccino. La vincita erano tutte le bilie lanciate dagli altri giocatori. A volte si giocava a squadre.
Edoardo aveva una mira eccezionale e tutti lo avrebbero voluto nella propria.
A lui non piacevano le squadre.
Era capitato che, un pomeriggio, uno dei preti gli parlasse e lui l’aveva ascoltato con attenzione. Gli aveva chiesto come mai non facesse parte del coro, perché non partecipasse ai gruppi di doposcuola organizzati dalla Chiesa, perché si facesse vedere così di rado. Edoardo non era stato in grado di rispondere in modo soddisfacente a quell’uomo del quale voce e modi di fare erano così piacevoli; rassicuranti.
Iniziò a frequentare più spesso l’oratorio, non solo a ludico intento, ma anche in occasioni più istituzionali. La figura di quel “don” era un punto di riferimento.
A casa, nonostante i succinti resoconti, il suo inserimento nella comunità cattolica era visto di buon occhio. Edoardo aveva iniziato a preferire le parole del “don” al silenzio del buco nel muro del cortile.
Il “don” aveva trovato in Edoardo un suo buon fedele. Con il passare dei mesi aveva capito quanto il ragazzino fosse sviluppato, schivo, poco propenso alla condivisione delle sue esperienze con i coetanei.
Il “don” si era proposto di aiutarlo nella crescita cristiana e cosi decisero di trascorrere un’ora la settimana nella camera a lato della sacrestia per recuperare in catechismo.
Erano iniziati gli incontri.
Il primo atteggiamento che non era piaciuto a Edoardo – l’unico che fino ad allora era stato in grado di controbattere – era il punto di vista della Chiesa sul mondo animale; un gatto e un uomo; uno senza, l’altro con l’anima. Uno meno, l’altro più.
Non era così.
Nonostante non condividesse, non aveva messo in discussione l’autorevolezza del “don”; la sua forza e la sua solidità non ne erano state intaccate.
Stava diventando un riferimento.
Aveva continuato ad ascoltarlo.
Il carattere che più accresceva l’ammirazione di Edoardo verso il “don” era l’estraneità di questi all’abbandono a esternazioni o espressioni non controllate: mai rabbia, mai risa non calibrate, né parole sgradevoli o manifestazioni impulsive.
Un modello.
Un pomeriggio avevano parlato di nuovo dell’uomo.
Il “don” aveva chiuso a chiave la porta e, fattosi vicino, aveva iniziato a spiegare che tra un bambino e un uomo c’erano grosse differenze. Aveva parlato a lungo, con termini poco familiari a Edoardo, in modo vago, facendo crescere in lui la curiosità di capire a pieno come – nella cristianità – sarebbe diventato uomo.
Lo sguardo annebbiato del “don”, il fremito e l’immagine di vulnerabilità che lo permeavano mentre Edoardo seguiva le sue istruzioni, non gli erano piaciute.
Il suo modello si era liquefatto, come quella sostanza del “don” che, senza controllo, gli era finita tra le mani e sulla maglietta.
Un uomo, un esempio di equilibrio e sicurezza che – con un banale movimento di mani altrui sul proprio corpo – sudava, gemeva, si trasfigurava.
La dinamica era la stessa, aveva pensato Edoardo, di quando d’estate aveva le caviglie piene di morsicature di zanzara. Non ci si doveva toccare, nemmeno sfiorare, perché altrimenti iniziava, quasi inconsapevole un sempre più violento grattarsi che spesso portava, oltre a una momentanea sensazione di piacere, anche al sanguinamento.
Non si doveva fare.
Nemmeno quello che aveva fatto al “don” si sarebbe dovuto fare. Ipotesi avvalorata da quanto e come il “don” lo avesse supplicato di mantenere “il loro piccolo segreto”.
Edoardo l’aveva mantenuto.
Non aveva capito questa grande differenza tra bambino e uomo, avrebbe voluto avere spiegazioni del perché un così comune gesto provocasse tanta apprensione, ma non poteva chiederlo più a nessuno. La sua imperturbabile guida era diventato in pochi minuti un uomo come tutti gli altri.
Non era più tornato da lui, e dopo poco l’estate era finita.
Non era più tornato né all’oratorio, né in Chiesa.
Non avrebbe fatto né il poliziotto, né il prete.